Patrizio  De Santis  Architetto

Ancora una volta capita di doversi confrontare con la naturale propensione a considerare la nostra condizione di architetti (e di formatori di architetti) peculiare e irriducibile a quella di altri. E ancora una volta ci troviamo a considerare che forse qualche giustificazione a questa nostra tendenza c’è. Se in una cosa gli studi di architettura possono definirsi specialistici, se esiste cioè un campo in cui poter dire che l’architetto sia, o debba essere, specializzato, questo è la capacità di governare processi complessi dominandoli un po’ tutti, anche se probabilmente nessuno cosà a fondo e in modo così esaustivo da non essere, in quello superato da qualche altro specialista. Un certo grado di trasversalità sembra connaturato alla stessa origine storica della figura professionale e del suo processo formativo: teoria e pratica, analisi e sintesi, conoscenze e abilità, scienze della natura e scienze umane furono fatte convergere in un unico crogiolo per sintetizzare l’<Architetto integrale>: definizione che evoca ogi idee salutiste e macrobiotiche, ma che fu un tempo l’obiettivo unificante del progetto giovannoniano per la scuola romana di architettura attraverso la fusione della figura d’ingegnere con quella, invero alquanto più sfumata, di <Artista>…….

Articolo tratto da “Il giornale dell’Architettura”, n°53, Luglio-Agosto 2007 - di Benedetto Todaro - Titolo: “Utilità e danno di un architetto diviso in settori”-

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“Il disastro contemporaneo

 o la libertà

dell’organizzazione

spaziale?”

 

Reinterpretazione del disegno di

-Le Corbusier-

 

 

 

 

Autore: Arch.Patrizio De Santis

ARGOMENTO:

Architetto “SPECIALIZZATO” o Architetto “INTEGRALE”:  DI CHI HA BISOGNO L’ARCHITETTURA MODERNA?

Non ricordo quando sia nata la parola design, ma da sempre è associata a un aggettivo: industrial design. Design non significa “disegno” e neppure “grafica”, ma vuol dire “progetto”. La cosa importante è che si tratta del prodotto di due individui, come un figlio, che nasce da un uomo e da una donna; così la fortuna dei designer italiani è stata quella di non aver dovuto andare in giro a mostrare il portfolio alle varie produzioni sentendosi dire: «Ah. Sì, questo possiamo farlo», perché sono state le aziende ad andare da loro.

Negli anni Sessanta Cesare Cassina mi chiese, in dialetto, se poteva produrre il primo pezzo che avevo fatto, una sedia rossa disegnata nel 1959. Il fatto che in Italia questo fenomeno si sia sviluppato partendo da una richiesta della produzione è stato determinante, e quello con la produzione per me, ma anche per gli altri che allora facevano design, è sempre stato un tipo di rapporto molto stretto. (…..).

Per me è difficilissimo dire cosa significhi “progettare”. Perché ciascuno progetta come vuole, ma con un sistema, con un metodo. I progettti in genere, anche i progetti grandi, io li disegno sempre in scale molto piccole sul retro delle buste o delle lettere che ricevo, che magari poi perdo. Per me si può progettare, non dico una città, ma una casa o una villa, con un disegno piccolissimo perché poi lo si farà disegnare in scala 1:20 o 1:50 con i dettagli al 10. Io la progetto quasi in scala 1:100, ma non con la riga e la squadra: proprio così a schizzo per capire come funziona. È così che faccio i progetti, forse c’è anche un perché: per “tenerli insieme”! Una delle cose più difficili in un progetto di architettura è che quanto più è grande quanto più è difficile. Ho progettato la facoltà di biologia, vicino al Politecnico: il disegno era più piccolo di un foglietto ed è stato quel disegno che poi abbiamo sviluppato. (…)

Il disegno di un oggetto di design è tutt’altra cosa. Intanto si deve considerare che nel design la caratteristica principale dell’oggetto è il numero. Un oggetto di design realizzato in quindici esemplari è inutile, non può essere creato per quello, qundi comporta anche una filosofia produttiva e questa puoi farla solo con il produttore. Quindi io porto dei disegni piccoli, concettuali per usare una parola grossa, e lavoro con persone intelligenti, gli operai per esempio sono straordinari, infatti con loro ho avuto sempre un buonissimo rapporto.

Con il design non si può lavorare come con un’impresa edile a cui porti i disegni precisi, perchè comunque una casa fatta qui o a Tokyo è la stessa cosa. Si deve andare in fabbrica e dire: «L’idea potrebbe essere questa, però come incastriamo questi due legni, è meglio farlo così o così?». Io non lo so, ma chi fa il falegname lo sa. Qual è il mio sforzo? Quello di indurre chi realizza l’oggetto a dire ciò che fa comodo a lui e non a me. Sono io che devo capire cosa lui preferisce e allora vedrò di disegnare qualche cosa che lui posssa facilmente produrre, che costi poco, che costi il meno possibile.

Articolo tratto da “Il sole 24 ore - Giovedì 25 Settembre 2007” - Art. di Giulia Crivelli - Estratto dal Libro: “Maestri del Design”  pubblicato da Bruno Mondatori nel 2005

Di   VICO MAGISTRETTI

 

….SUL DESIGN E L’ARCHITETTURA...

Video preso da YouTube che tratta una parte di una lezione tenuta da Le Corbusier .

 

….SUL COME SI INSEGNA L’ARCHITETTURA...

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“L'architetto è colui che cerca di mettere insieme cose distanti fra loro”

Nel 1967 Aldo Rossi convinse Ludovico Quaroni a raccogliere in un unico testo diversi scritti tutti inerenti la città, “La Torre di Babele”, testo rizomatico ma allo stesso tempo unitario, fondamentale per chiarire una delle originali e sperimentali posizioni della cultura architettonica italiana all’interno del dibattito sul progetto urbano degli anni ’60 e ’70.
In questo scritto tenterò di evidenziare alcuni temi tracciati da Quaroni, attraverso un confronto dialettico fra i testi che compongono “La Torre di Babele” e i progetti, e di chiarire l’originalità delle sue posizioni, in particolare mettendole a confronto con le teorie di Aldo Rossi tracciate in
”L’Architettura della Città”, del 1966, e le teorie di Samonà in “L’Urbanistica e l’avvenire della città”, del 1959, inquadrando queste posizioni all’interno del dibattito internazionale sulla città.
Quaroni precisa all’inizio del libro che i vari testi che lo compongono contengono tutti il medesimo argomento di fondo, il problema del “disegno” per la città moderna, cioè della necessità e della possibilità di “ridare figura ed espressione di forma” alla metropoli attraverso nuovi strumenti progettuali. I vari scritti non hanno nessun carattere antologico, ma sono “capitoli di un discorso unitario […] non quindi frammenti uniti dalla personalità dell’Autore ma momenti di un vasto
progetto […] un’opera quasi sistematica nella sua complessità” (1).
Nell’introduzione Aldo Rossi definisce l’immagine della Torre biblica come ambigua:

“da un lato vi è il disordine delle istituzioni e la perdita del significato comune nella confusione delle lingue e dall’altro l’interesse per un disegno più vasto, più complesso, persino contraddittorio e confuso, della realtà e della costruzione […] (la Torre) è l’allegoria di uno sforzo secolare dell’umanità per costruire la razionalità in tutti suoi aspetti”.

Questo simbolo rappresenta dunque nel testo di Quaroni la complessità di ogni discorso sull’urbano: nessun ragionamento compositivo è lecito senza una cosciente riflessione sugli strumenti di
attuazione, normativi e politici. Quaroni applica però questa necessità di realtà a visioni utopiche di un possibile futuro; evita dunque posizioni di cieca appartenenza ideologica, prende dell’utopia solo ciò che permette di tornare verso la realtà del presente, cosciente che l’architettura è una disciplina positiva: l’architettura deve dare soluzioni, non può permettersi di guardare il mondo con eccessivo nichilismo, di limitarsi ad evidenziare la crisi e i difetti della società, o di accettare un unico punto di vista ignorando la complessità.
La Torre è “paradigma non tanto dell’ovvia impossibilità di pervenire ad una forma unanime e condivisa di progetto,
quanto della vitale immanenza del progetto collettivo”. Il titolo stesso esprime complessità e disordine, temi rafforzati dalla citazione di Henry Miller posta all’inizio del libro: “Confusione è una parola inventata per indicare un ordine che non si capisce”. Il libro non è però un elogio al caos, ma rappresenta possibili soluzioni alla “bruttezza” della città moderna e al perenne stato di crisi, iniziato nel dopoguerra ed esasperato dalle tecniche di speculazione edilizia dei costruttori italiani, strumenti costituiti dalla degenerazione delle teorie elaborate dal Movimento Moderno. Manfredo Tafuri inizia il suo libro su Quaroni scrivendo:

“E’ qualche tempo, ormai, che i
termini di continuità e di crisi hanno cominciato a perdere gran parte del loro significato nell’ambito della cultura architettonica italiana. Non che i problemi che vengano sintetizzati da quei termini abbiano perso interesse agli occhi dei critici o degli architetti: tutt’altro, ché mai come in questo momento, anzi, essi appaiono più attuali; ma ciò che si sente invecchiato, ciò che si valuta come appartenente ad un dibattito superato, legato a schemi interpretativi e a canoni espressivi propri ad un capitolo chiuso o che sta per chiudersi, è la maniera di impostare una problematica quale quella, appunto, della crisi e della continuità, tipica della cultura dell’immediato dopoguerra con i suoi lunghi e non poco pesanti strascichi”.

Nel testo Quaroni definisce l’Architetto “colui che mette insieme cose distanti fra loro”, operazione che presuppone l’esistenza di opposizioni e di contrasti. Tafuri riconosce al maestro di aver insegnato il riconoscimento della realtà della contraddizione, del senso e del valore di ogni situazione contraddittoria.

“Assumere su di sé la contraddizione, che è del mondo e della società, caratteristica e dramma del momento storico in cui siamo immersi, significa in sostanza obbligarsi ad una coscienza sempre viva del presente, significa non permettersi nessuna idealizzazione nell’azione
come nel pensiero, significa non riporre le proprie speranze o le lotte che si compiono in nome della società, in un rimando più o meno idealistico ad un imprecisato e catartico futuro”.

Spesso i discorsi quaroniani hanno come sfondo una problematica contraddittoria, nascono da sequenze di opposizioni, di contrapposizioni diacroniche, che hanno però sempre un riscontro in un preciso momento progettuale, intendendo quindi la contraddizione stessa come un principio positivo, un metodo per generare idee.
I testi che compongono “La Torre di Babele” , proprio per loro natura, non costituiscono una precisa sequenza logica, e affrontano diverse tematiche, sintetizzabili in
coppie di termini contrapposti. Le principali contrapposizioni che ho tracciato come linee guida per l’analisi del testo quaroniano sono:

- necessità della forma / necessità del potere;
- antichità / modernità;
- urbanistica / architettura;
- ordine / variazione;
- utopia / realtà.

Necessità della forma / necessità del potere

Nel primo capitolo, “Necessità e possibilità, da parte dell’architetto, del controllo della forma della città”, vengono messe a confronto le necessità del potere con la necessità della forma, obiettivo che l’architetto deve rivendicare per far diventare “bella” la città. Quaroni critica non tanto i metodi della politica, quanto la rinuncia operata dall’architetto, e la
necessità di operare il controllo della forma urbana, cercando di esplorare metodi che tengano conto delle necessità della società e della politica stessa. La contrapposizione fra lo spazio fisico della città e le strutture sociali, economiche, politiche, religiose, rappresenta la contrapposizione fra l’architetto e il potere. Questa lettura della realtà pone l’architetto di fronte ai propri limiti, e alla impossibilità di influire sulla realtà senza il necessario consenso. Nella contrapposizione fra la città fisica, intesa come rappresentazione formale della città stessa, e la città sociale, strumento nelle mani del potere,  la vera specificità dell’architetto per Quaroni risiede nella creatività, la capacità di controllo della forma urbana. La cultura architettonica è “volontà di ordine, d’organizzazione, di spazio, di forma”, e l’architettura nasce proprio dal rapporto fra committenza e architetto, fra “principe e artista”.  La necessità della città fisica e della forma urbana, elaborate attraverso il disegno, sono le condizioni di base per l’esistenza dell’architetto, e della città, “La città sociale non potrà mai essere se non in uno spazio”.
La costruzione e il controllo della forma sono quindi per Quaroni le uniche vere specificità dell’architetto, raggiungibili solo attraverso il disegno:

“l’azione di disegno è il continuo alternarsi di
formulazioni di ipotesi, di presupposizioni, e della loro verifica su un altro grafico di tipo differente o a scala diversa, maggiore o minore, spesso maggiore e minore. Disegnare è cercare una struttura che permetta il coordinamento”. Il disegno è inteso come “senso creativo”, scrive Quaroni: “il nostro disegno, quindi, non si limita alla rappresentazione grafica d’una idea, ma è l’idea stessa”.

La costruzione della forma è per Quaroni dipendente dal segno, ma non si conclude in esso, il segno è sempre espressione di un’idea.
In Quaroni la forma non si esaurisce in se stessa, ma allo stesso tempo non possiamo
dire che si costruisca automaticamente attraverso l’elaborazione di un processo compositivo. Spesso assume connotati simbolici, evocativi di un mondo legato alla romanità, quasi come fossero dichiarazioni di appartenenza, ma ciò che più interessa capire è il metodo logico razionale con il quale i progetti quaroniani tentano un compromesso fra la costruzione di una forma e la realtà legislativa necessaria alla loro concreta realizzazione. La forma non nasce come conseguenza di una serie di operazioni, in modo diagrammatico, ma subisce deformazioni in base ai diversi metodi realizzativi.
Se analizziamo il progetto per il quartiere Casilino a Roma possiamo notare come
questo presenti un forte rapporto tra leggi formali, compositive, e leggi costruttive, tali da permettere la sua corretta ed efficace realizzazione.

 

 

 

I suoi progetti hanno una figuratività derivata dall’opposizione tra l’intenzione di costruire un’immagine sintetico-simbolica e la necessità di elaborare un metodo normativo di controllo dei vincoli. I progetti elaborati sono tutti composizioni “aperte”, indicano alcune direzioni che i progettisti dei singoli edifici dovranno seguire, impongono quindi una forma generale, ma non si esauriscono in questa. Le idee formali e le ipotesi normative si modificano insieme. Le diverse ipotesi sono basate su differenti concezioni plastiche, da realizzare con diversi vincoli. I principi compositivi usati, come scrive Antonino Terranova nel testo “Norma e forma” sono “la radialità policentrica e l’espressione della centralità gerarchica sia in pianta che in alzato” . La forma delle varie proposte presenta caratteristiche genetiche diverse: la prima si costruisce attraverso edifici sinuosi che creano spazi urbani attraverso il movimento dei volumi; la seconda deriva dalla prima, ruotando senza regolarità cinque o sei edifici di pochi piani in modo da formare corti semiaperte, contrapposte agli spazi tra le case dritte; la terza si compone di sei edifici a molti piani che si aggregano dando vita ad una strada e due giardini; il progetto realizzato si basa invece su una composizione a ventaglio di ventinove elementi che fanno perno su quattro centri e confluiscono verso una cavea verde aperta. Le proposte affrontano leggi compositive diverse, ognuna delle quali è corredata da un apparato normativo che ne permette la corretta realizzazione. Ad esempio la prima proposta possiede un forte carattere unitario, ma la sua composizione unitaria prevede l’affidamento dei lavori ad un’unica società, condizione irrealizzabile in quel preciso contesto. La proposta realizzata invece si compone di edifici diversi, tutti appartenenti ad un unico sistema, affidati ognuno a una società diversa.  Parlando della soluzione finale Franco Purini nel saggio “Una delle rêverie più forti che io conosca…” scrive, riprendendo alcuni concetti presenti nella relazione tecnica scritta dallo stesso Quaroni :
”Il Casilino, una sorta di sogno piranesiano materializzato in un iperbolico Colosseo di cui rimangono le ossa gigantesche disposte sul terreno”.

La costruzione della forma, e dunque il disegno, rappresentano la vera specificità dell’architetto, il cui vero compito per Quaroni è di “esercitare il controllo della città fisica”.
Per far questo l’architetto deve essere in possesso di un metodo di controllo sulla forma, ma deve anche essere organizzato, e soprattutto deve essere chiamato ad operare, deve quindi accettare la propria condizione di dipendenza dal potere, deve, sia per Quaroni che per
Tafuri, “impadronirsi del potere”.

L’ARCHITETTO PER LUDOVICO QUARONI.

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LE CORBUSIER - Viene ricordato - assieme a Ludwig Mies van der Rohe, Walter Gropius e pochi altri - come un maestro del Movimento Moderno. Pioniere nell'uso del cemento armato per l'architettura, è stato anche uno dei padri dell'urbanistica contemporanea. Membro fondatore dei Congrès Internationaux d'Architecture moderne, fuse l'architettura con i bisogni sociali dell'uomo medio, rivelandosi geniale pensatore della realtà del suo tempo.